La medicina dello sport ha alcune specificità, come gli esami fisici sportivi (SPU) o il doping, che raramente vengono discussi in altre specialità della medicina. Anche le fratture da fatica appartengono a queste particolarità per quanto riguarda la loro prevalenza.
Nell’ultimo anno di registro, il centro di raccolta statistiche dell’assicurazione infortuni UVG (SSUV) ha elencato circa 260 casi di fratture da stress, 100 nel tempo libero, 60 nella vita professionale e 100 nello sport. Numeri davvero piccoli. In effetti, la frattura da fatica di una persona sana viene considerata dagli assicuratori come una lesione corporale di tipo infortunistico (UKS). Ma torniamo all’epidemiologia: le fratture da fatica sono generalmente rare da incontrare, rappresentando poco meno dell’1% delle lesioni nella traumatologia sportiva. Queste basse cifre aumentano se si considera la corsa (fino al 20%) e diventano quasi preoccupanti nella corsa femminile, dove sono descritte incidenze fino al 45%! Ci sono anche più fratture da stress nelle persone anziane che sono rimaste sportive (e a volte troppo ambiziose).
La frattura da fatica – o la frattura da marcia, la frattura della ballerina o del ballerino o anche la frattura tedesca – può essere definita come una frattura parziale o totale dell’osso, che però è causata da sollecitazioni applicate ripetutamente, ognuna delle quali è significativamente più piccola rispetto alla singola sollecitazione quando si provoca una frattura ossea. Si tratta quindi di una tipica condizione di sovrautilizzo, in cui c’è una sproporzione o uno squilibrio tra la capacità di carico dell’osso colpito e i carichi che deve sopportare. Negli atleti “sani”, nella maggior parte dei casi si può presumere che questa capacità di carico sia tollerabile anche con uno sforzo di forza puntuale elevato. Si ricordi che quando si fa jogging, il carico sul piede è da tre a cinque volte il peso del corpo ogni volta che lo si calpesta. Con un allenamento di 10 km per un corridore di 70 kg, questo significa circa 4’200’000 kg (=4200 tonnellate)! Naturalmente, non si tratta solo di un problema quantitativo, ma anche della capacità del tessuto di recuperare tra le sollecitazioni. La capacità di carico può essere ridotta a causa di forme sfavorevoli del piede o della gamba, per esempio. Va già detto che tra gli atleti ci sono anche persone che “nascondono” condizioni patologiche. Un esempio è rappresentato da coloro che soffrono di RED-S (Relative Energy Deficiency in Sports) con conseguenze osteoporotiche.
Le fratture da stress possono essere riscontrate in qualsiasi parte del corpo, persino nei golfisti sono descritte in letteratura fratture alle costole, oppure nel tennis sono state riscontrate fratture all’avambraccio. Le fratture da fatica sono più comuni nelle estremità inferiori, soprattutto a livello distale, in particolare nell’area del piede. Nelle recensioni sulle fratture da affaticamento, non sempre viene menzionata una localizzazione di tali sintomi da sovraccarico, ossia la colonna vertebrale inferiore. Eppure, le reazioni di stress nella colonna vertebrale lombare sono una causa comune di mal di schiena negli atleti agonisti adolescenti. Si stima che fino al 50% delle lombalgie nei giovani atleti sia il risultato di una frattura da fatica, che equivale a una spondilolisi. La LWK 5 è più frequentemente colpita nella sua pars interarticularis (istmo). Il processo che porta alla frattura da stress rappresenta un continuum: Dopo uno stress normale e un recupero adeguato, si verifica un rimodellamento fisiologico. Se queste sequenze non sono corrette, si possono sviluppare reazioni di stress lievi, moderate o più gravi, fino alla rottura completa. Nella parte interna della tibia, una “sindrome da stress tibiale mediale”, cioè una frattura incompleta, è una diagnosi comune nei consulti di medicina sportiva.
Con chiare conseguenze terapeutiche, viene fatta una distinzione tra le fratture da stress a basso rischio (“fratture a basso rischio”) e quelle a rischio più elevato (“fratture ad alto rischio”). Le “fratture ad alto rischio” sono quelle del collo del femore, della rotula, del lato anteriore interno della tibia, del malleolo mediale, del navicolare tarsale, della base del quinto metatarso e delle ossa sesamoidi.
La diagnosi di frattura da fatica è in realtà semplice se si conosce il quadro clinico. Il paziente localizza il punto di origine del dolore, l’anamnesi informa sulla sua attività sportiva e sulle abitudini di allenamento. L’esame fornisce rapidamente una visione dei potenziali fattori di riduzione del carico e della situazione locale con dolori da pressione, eventualmente gonfiore e arrossamento. Questo comporta l’obbligo di eseguire una diagnostica per immagini, in particolare una risonanza magnetica. La radiografia convenzionale non è affidabile nella fase iniziale (fino a tre settimane). Nel caso di una prima manifestazione e dopo una seria valutazione clinica, normalmente non sono indicati ulteriori chiarimenti come la densitometria, lo stato ormonale, l’analisi biomeccanica dell’andatura e altri. La situazione è diversa, tuttavia, se ci sono alcuni fatti sospetti – nel caso di un corridore vistosamente magro, per esempio.
Il trattamento delle fratture a basso rischio è sempre conservativo, in realtà secondo i principi della teoria delle fratture: sollievo e gestione del dolore per le prime due settimane, poi transizione progressiva al normale carico non atletico per circa altre quattro settimane e quindi ripresa delle attività abituali. L’allenamento sostitutivo con protezione dell’area infortunata è possibile fin dall’inizio nella maggior parte dei casi (acquagym, allenamento di forza e flessibilità, allenamento di resistenza sulla cyclette). Per esperienza, le solette rigide in carbonio su misura si sono dimostrate molto efficaci per le fratture da stress nell’area del piede. I controlli radiologici dopo quattro e otto settimane sono giustificabili nella maggior parte dei casi. Con questo tipo di frattura, il decorso è quasi sempre favorevole e senza problemi. Al contrario, il trattamento di una frattura da fatica ad alto rischio è più problematico, come una frattura del collo del femore o dell’albero tibiale. A seconda della situazione, può essere necessario un intervento chirurgico. Il processo di guarigione è di solito molto più lento e il tasso di complicanze (guarigione ritardata, pseudoartrosi) è significativamente più alto. Quando è possibile, si ricorre alla terapia con onde d’urto, alla vitamina D e al calcio, e talvolta anche alla calcitonina.
Conclusione
La frattura da stress è un’entità clinica che è essenziale conoscere quando ci si prende cura degli atleti, forse ancora di più oggi e meglio che in passato, dato che l’intensità dell’allenamento è aumentata, a volte in modo irragionevole.
PRATICA GP 2018; 13(3): 4-5