I pazienti con carcinoma a cellule renali operabile devono continuare a essere osservati dopo la nefrectomia. Secondo uno studio della rinomata Mayo Clinic di Rochester, la durata necessaria dell’assistenza di follow-up dopo la nefrectomia può essere determinata in modo adeguato e individuale con l’aiuto di un modello di rischio [1]. La domanda è: a che punto il rischio di morte altrove (non correlato al carcinoma a cellule renali) supera il rischio di recidiva? I ricercatori hanno analizzato questo aspetto utilizzando i parametri di età, stadio del tumore, sito di recidiva e comorbilità. Ci sono state differenze sorprendenti all’interno dei gruppi di pazienti. Un altro studio presentato al 67° Congresso della DGU era dedicato alla differenziazione prognostica dei pazienti con carcinoma a cellule renali in stadio pT3 [2].
La terapia standard per il carcinoma a cellule renali è la nefrectomia con rimozione chirurgica completa del tessuto tumorale. Dopo l’intervento chirurgico, tuttavia, esiste il rischio di recidiva, motivo per cui l’assistenza di follow-up è di importanza fondamentale.
I primi due o tre anni dopo l’intervento chirurgico sono generalmente considerati critici, poiché la maggior parte delle recidive si verifica in questo periodo. Tuttavia, la durata appropriata del follow-up dopo la nefrectomia radicale o parziale rimane poco chiara e mancano prove a sostegno delle attuali raccomandazioni e linee guida.
Rischio di recidiva e di morte
Uno studio pubblicato a settembre sul Journal of Clinical Oncology adotta un nuovo approccio, adattato al rischio, a questo proposito: confronta il rischio di recidiva con il rischio di morte altrove.
L’interazione di diversi fattori di rischio mostra a che punto il rischio di un altro decesso supera il rischio di recidiva. Fino a questo punto, i benefici del follow-up giustificano le risorse spese per esso dal sistema medico, e quindi la durata ottimale del follow-up potrebbe essere stabilita qui.
Dopodiché, altri fattori di salute del paziente esercitano un’influenza maggiore sulla sopravvivenza rispetto al carcinoma a cellule renali e quindi un’assistenza di follow-up limitata ‘solo’ a questo tumore, da quel momento in poi, sarebbe sempre insufficiente e non varrebbe più il suo costo. Naturalmente, gli aspetti etici sono lasciati fuori da queste considerazioni, poiché si basano esclusivamente su valori statistici.
Grandi differenze nella durata ottimale
I pazienti sono stati stratificati in base all’età, allo stadio del tumore, al sito di recidiva e all’Indice di Comorbilità Charlson, ossia la probabilità di morire per una comorbilità nei prossimi anni.
In totale, hanno utilizzato i dati di 2511 persone con carcinoma a cellule renali M0, sottoposte a intervento chirurgico tra il 1990 e il 2008. Dopo un follow-up mediano di nove anni, 676 dei pazienti hanno sviluppato una recidiva. Ci sono state notevoli differenze nel modello di rischio. Un fattore importante, come spesso accade, era l’età:
- I pazienti di età inferiore ai 50 anni con carcinoma in stadio pT1Nx-0 e un punteggio sul CCI di ≤1 avevano, in media, un rischio più elevato di recidiva (addominale) rispetto ad altri decessi per più di 20 anni dopo l’intervento. Solo allora il rischio di morte non associato al carcinoma a cellule renali superava quello di recidiva. È quindi possibile che l’assistenza di follow-up debba essere estesa a un periodo più lungo di quello attuale.
- Al contrario, i pazienti di età pari o superiore a 80 anni con carcinoma in stadio pT1Nx-0 e un punteggio CCI di ≤1 avevano, in media, un rischio di recidiva più elevato rispetto ad altri rischi di morte solo fino a sei mesi dopo l’intervento chirurgico. In seguito, il rischio di morte non associato al carcinoma a cellule renali superava già quello di recidiva. Da questo momento in poi, il beneficio del follow-up di routine non giustificherebbe più statisticamente lo sforzo e i costi per il sistema medico. È più probabile che altri determinanti della salute richiedano attenzione.
- È quasi autoesplicativo che un valore crescente della CCI accorci rapidamente anche il periodo di tempo: nei pazienti con un tumore pT1Nx-0, ma con una CCI ≥2, l’altro rischio di morte superava il rischio di recidiva nell’addome già 30 giorni dopo l’intervento chirurgico – e questo era notevolmente indipendente dall’età del paziente. Quindi forse in questo gruppo non è indicato alcun follow-up di routine?
E adesso?
Non si possono trarre conclusioni definitive dallo studio, ma è uno spunto di riflessione. I dati mostrano che alcuni pazienti hanno bisogno di un follow-up più lungo di quello suggerito dalle linee guida. Per altri, invece, un periodo più breve è – almeno statisticamente – giustificato. Tuttavia, il giudizio clinico e l’esperienza nel trattare il singolo paziente devono rimanere i pilastri principali del processo decisionale, come sottolineano ripetutamente anche gli autori. Rispetto alla pratica precedente, tuttavia, il loro approccio può almeno fornire una base più stabile su cui basare le decisioni cliniche. La discussione sulla durata ottimale dell’assistenza di follow-up non si placherà quindi a breve.
Differenziazione prognostica con la classificazione TNM
Uno studio retrospettivo presentato al 67° Congresso della DGU [2] ha esaminato in modo critico due punti della settima edizione della classificazione TNM:
Nel sotto-stadio pT3a, i due fattori infiltrazione di grasso perirenale (PFI) e invasione della vena renale (RVI) sono combinati, anche se non è chiaro se la loro influenza prognostica sia effettivamente paragonabile.
Inoltre, la differenziazione prognostica degli stadi pT3a e pT1-pT2 è controversa.
Utilizzando 7384 pazienti con carcinoma a cellule renali in stadio pT1-pT3a, sottoposti a nefrectomia (radicale o parziale) tra il 1992 e il 2010, i ricercatori hanno affrontato la seguente domanda: i pazienti con PFI da solo hanno effettivamente una mortalità cancro-specifica paragonabile a quella dei pazienti con RVI±PFI?
Nell’analisi multivariata, che ha preso in considerazione l’età, il sesso, il metodo chirurgico, il sottotipo, le dimensioni del tumore, il grado Fuhrman e lo stato linfonodale, è stato riscontrato che sia i pazienti con PFI da solo (HR 1,94) che quelli con RVI±PFI (2,12) avevano un rischio di mortalità significativamente più elevato rispetto ai pazienti in stadio pT1-2. Entrambi i fattori (PFI e RVI) sono quindi fattori prognostici indipendenti per la mortalità cancro-specifica.
Anche in questo caso, confrontando i pazienti PFI con quelli RVI±PFI, non ci sono state differenze significative nel rischio di mortalità (HR 1,17; 95% CI 0,86-1,61; p=0,316). La fusione di PFI e RVI in un’unica categoria di stadiazione sembra quindi giustificata. Entrambi i fattori hanno un’influenza prognostica comparabile ed entrambi contribuiscono in modo indipendente all’aumento del rischio.
Sottoconsumo di tumori pT2 e pT3a ≤7 cm
Per quanto riguarda il secondo punto di critica, i ricercatori concludono che i pazienti con pT2 e quelli con tumori pT3a ≤7 cm (con PFI e/o RVI) hanno una grande vicinanza prognostica, che giustificherebbe la loro associazione in un’unica categoria di stadiazione. Sulla base dello studio, gli autori propongono quindi un sistema di stadiazione alternativo: Sottoinsieme di tumori pT2 di qualsiasi dimensione e tumori pT3a ≤7 cm. Quindi, a differenza dell’attuale classificazione TNM, tutti gli stadi potevano essere distinti prognosticamente senza alcuna sovrapposizione degli intervalli di confidenza al 95%.
Letteratura:
- Stewart-Merrill SB, et al: Sorveglianza oncologica dopo la resezione chirurgica per il carcinoma a cellule renali: un nuovo approccio basato sul rischio. JCO 8 settembre 2015. doi: 10.1200/JCO.2015.61.8009 [Epub ahead of print].
- Brookman-May S: Carcinoma a cellule renali – analisi del database CORONA: le 5 conclusioni principali. Giornale del Congresso per il 67° Congresso della DGU 2015.
InFo ONCOLOGIA & EMATOLOGIA 2015; 3(9-10): 2-3